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15 aprile 2013


Prima o poi salta fuori. Giri le pagine di un libro, o quelle di un anno finché non arrivi a quel punto.
Quel punto senza dimensione né colore, senza tempo né dimensioni. Senza tempo ma irrevocabilmente ancorato nel tempo, perché altrimenti non avrebbe altro sapore se non quello di un vuoto secondo senza storia, mentre è la storia stessa che da gusto all’esperienza.
Quel punto in cui ti rendi conto che a volte la vita ti scorre di fronte troppo velocemente, come un parco giochi pieno di luce in cui un divertimento nuovo sfuma nel ricordo di quello passato così che alla fine rimane poco più che un paio di bruciature sulla pelle e una foto da mettere in camera con volti che sorridono senza sapere per cosa.

 Servirebbe il tasto pausa di tanto in tanto. Le pause bloccano il sentimento; danno l’impressione che qualcosa sia finito, mentre non abbiamo il coraggio di ammettere che siamo noi ad aver premuto il pulsante.
Bisognerebbe vivere di appunti, di post-it appiccicati in ogni oggetto, in ogni giornata. Frasi brevi, di taglio forte e pungente. Frasi lunghe, sinuose nel loro mistero di un tempo andato. Semplici parole, da sole, per far sì che l’ebbrezza di un momento non svanisca nel turbine infuocato delle cose da fare.

 Qualcuno disse che “occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina”. Terribilmente vero. Senza la drammaticità dell’attimo, la parola non è solo vuota e priva dell’oggettività della carne, ma è pericolosa. Troppo soggettiva perché possa essere un affare di uomini.
Ma senza il cristallo di un giudizio, il fatto non diventa esperienza e l’esperienza non diventa verità.

Proverò a tener fede a questo proposito, a tenere uno straccio di bussola tra le riflessioni che vengono fuori ogni giorno. Fosse anche solo per un’idea, sono pronto a giocarci tutto l’impegno.

3 ottobre 2011

Il suo sorriso

Il tremolio della luce riempiva a malapena il buio della stanza, mentre il secco sbattere della finestra scandiva i minuti. Tutto giaceva immobile in un disordine pieno di significato, dove ogni singolo oggetto, anche l’armadio e l’orologio che non cambiavano posto da anni, pareva aver ottenuto ora una scompostezza nuova e sinistra. Il respiro affannato dell’uomo si fondeva al ronzio della lampada a muro, sempre più scosso da singhiozzi. Il vetro infranto che aveva per anni protetto la foto di loro due colpiva i suoi occhi  dal pavimento con un riflesso maldestro ma insidioso.

 Lei sorrideva nella foto. Da troppi giorni ormai quel sorriso era diventato soltanto una pallida fantasia che di rado riaffiorava solo per metà, più per cinica ironia che per altro. Eppure aveva fatto di tutto per lei. Le era sempre stato vicino; un uomo fedele, affettuoso, divertente: un uomo innamorato. Persino quando lei aveva dimenticato il letto matrimoniale, gettandosi nelle braccia di un altro. Lui l’aveva riaccolta in lacrime, perdonandola ancor prima che lei lo avesse chiesto.

 Aveva sperato che ogni cosa si sarebbe sistemata, che da un giorno all’altro lei sarebbe tornata la donna che aveva sposato. Se la ricordava in abito bianco, nel suo incedere timido ma deciso, silenzioso ma espressivo, che sempre l’aveva contraddistinta. Riservata, portatrice di un mistero che lo aveva affascinato sin dal primo sguardo. Un mistero sempre più intricato e incomprensibile con l’andare dei mesi. 
E così era apparsa sempre più distaccata, sempre più sofferente di quella lacerante noia di vivere che lui mai era riuscito a comprendere nemmeno per un istante.

Forse, in fondo, era anche colpa sua; forse era lui che non aveva saputo soddisfarla, che non le era stato compagno fino in fondo nonostante gli sforzi. O forse non era colpa di nessuno. Ma quel corpo rimaneva ad ogni modo steso a terra, rigido e composto, in una spettralità senza tempo che rifulgeva tra quelle membra gelide, donandole una bellezza altera e sprezzante tale da indurre l’uomo a non poterle nemmeno più posare gli occhi addosso. Quel sorriso di ironico distacco le era rimasto scolpito sulle labbra, quasi a dimostrare che nemmeno la morte, che si era donata da sé, era stata in grado di scuotere il suo animo, di farle sperimentare almeno per una volta che qualcosa potesse assumere una qualsiasi importanza per lei. No, persino la vita aveva perso significato e le era scivolata via per sempre.

L’urlo acuto di una sirena si fece sempre più pressante fino a spegnersi in prossimità dell’abitazione, mentre il lampeggiare bluastro dei fanali penetrava nella stanza a intervalli regolari. Probabilmente le urla di sgomento dell’uomo avevano attirato l’attenzione di qualche vicino. Con uno schianto secco la porta venne spalancata, permettendo l’entrata ai soccorsi. L’uomo seduto al centro della stanza non parlò e neppure alzò gli occhi, ma rimase a fissare per l’ultima volta quel viso che tanto aveva amato. 
Era vuoto, finito, senza di lei. Non riusciva a immaginare un altro giorno senza di lei, non riusciva ad figurarsi un mondo senza di lei; per questo non si mosse quando gli misero le manette. Era innocente: al suo rientro la moglie aveva già terminato ogni respiro; eppure non si sarebbe mai sentito innocente al pensiero di lei distesa a terra. Non si sarebbe mai sentito in pace al ricordo di quella donna che, sola di fronte alla morte, sorrideva.

25 settembre 2011

Non ci rimane che il buio

Non doveva andare così. Quella luce doveva essere mia. Quella luce doveva essere nostra.

Lo scontro fu duro, estenuante. L’universo non saluterà più due eserciti così imponenti. Eppure noi eravamo in pochi, troppo pochi per poter avere la meglio; ma non per questo potevamo non tentare: il gioco era troppo alto.  Certo, Lui aveva promesso un Regno di gioia, un Regno di bene, ma pur sempre un regno. Un Regno nei cieli e uno sulla terra, fin quando la Terra non sarebbe stata un Regno dei Cieli. Ma pur sempre un regno. La Sua autorità sarebbe stata unica, onnipotente, irreversibile; e la nostra anima mutila, debole, corruttibile. Ci sarebbe stata felicità - ne avemmo prova e non avemmo dubbio - ma sarebbe stata una felicità davvero nostra? O forse una soddisfazione inculcataci dalla Bontà divina, che Lui soltanto avrebbe scelto di chiamare “felicità”. No, non l’avremmo guadagnata noi, non l’avremmo scelta e decisa noi.

La Repubblica dei Cieli. Sì, così l’avremmo chiamata. Quanti giorni con Samael, Baal e gli altri avevamo passato a fantasticare di un nuovo mondo, con gli occhi lucidi ed i cuori entusiasti, con le ali che fremevano sulla schiena come pronte a scattare verso quel vivido sogno di un futuro diverso! Un mondo in cui ognuno avrebbe avuto voce in capitolo; in cui ognuno sarebbe stato qualcuno, senza che l’Uno lo riducesse a nessuno. Un mondo libero. Non potevamo non tentare.



A cosa siamo ridotti ora? Persino l’uomo - rozzo, insulso, imperfetto - cammina sopra le nostre teste. Eravamo perfetti, noi, eravamo Angeli, l’élite dell’universo. Ora guardo la bella Lilith, esanime qui affianco a me, straziata dai colpi e dalla caduta. I suoi vividi occhi, che sempre mi avevano incoraggiato, non vedranno più la luce; e nemmeno i miei. Quella luce ormai non saprei nemmeno guardarla, mi creerebbe solo nausea e disgusto: una luce troppo forte per il nostro cuore così ferito.
Non ci rimane che il buio. Ogni speranza è perduta, ogni sogno è infranto. Saremo liberi, è vero. Ma a che serve la libertà dove il sole non risplende? A che serve la libertà quando non si può inseguire liberamente la bellezza? Quando la bellezza non c’è?

Abbiamo tentato di aprire gli occhi degli altri Angeli, abbiamo cercato di illuminare le loro menti; Lucifero, mi chiamavano. Ora mi chiamano con altri nomi, mi credono il Male, mi temono e mi disprezzano. Forse hanno ragione, forse la cosa più conveniente era rimanere nei Cieli e rassegnarmi a quella felicità che non mi apparteneva, ma non potevo non tentare. Quella Repubblica poteva esserci davvero!
No, non doveva andare così.

2 agosto 2011

Era una notte incantevole

una di quelle notti che succedono solo se si è giovani, gentile lettore. Il cielo era stellato, sfavillante, tanto che, dopo averlo contemplato ci si chiedeva involontariamente se sotto un cielo simile potessero vivere uomini irascibili ed irosi. Gentile lettore, anche questa è una domanda proprio da giovani, molto da giovani, ma che il Signore la ispiri più spesso all'anima!

Le notti bianche, F.Dostoevskij

25 aprile 2011

Quel miracolo di felicità che si anima di fronte ai miei occhi

Il sole domina su questo cielo azzurro di metà aprile.  Il caldo è forte, ma non insopportabile, un caldo che copre e abbraccia ogni centimetro di pelle, donandole lentamente una sfumatura ambrata. La luce si rispecchia in mille riflessi dorati correndo su ogni granello di sabbia fino ad esplodere nella distesa screziata del mare. Intorno, i passanti si distendono in ampie passeggiate lungo la riva, concedendosi uno scorcio di estate pur all’inizio della primavera. La spiaggia rimane tuttavia poco affollata e silenziosa, così che il mare sibila sornione infrangendosi lentamente in milioni di piccole goccioline biancastre.

I nostri teli colorati sono disposti abbastanza lontano dallo smisurato tappeto di acqua azzurrognola ma in te intravedo l’infinito più di quanto l’orizzonte del mare possa anche farmi soltanto immaginare. Sei stesa supina e parli in continuazione di passato, futuro, esperienze e progetti mentre le tue esili braccia si alzano e abbassano in aria compiendo intricati disegni che si fondono ai tuoi ragionamenti. Anche il fragore del mare si fa più sordo e docile per non coprire nemmeno una sola lettera delle tue lunghe frasi. I tuoi occhi fulgidi indagano ogni frammento di cielo limpido dipingendo tutta l’aria frizzante del loro sincero sorriso. Mi ha sempre estasiato il fatto che il tuo sguardo brilli di luce propria, come una stella, e che ogni cosa intorno non possa fare a meno di riflettere questa splendida luminosità.
Nonostante l’inverno si sia da poco concluso, il pallore ha già abbandonato il tuo corpo, il quale, coperto con dolcezza da un costume verde scuro, ricorda con meraviglia quello di una antica dea, terribilmente bella e amabilmente maestosa. Il vento, leggero e gentile, accarezza timidamente i tuoi capelli sciolti che rivelano sotto il sole folgoranti scintille bionde mentre vorticano con dolcezza nel loro deciso color castano.

Rimango in silenzio, assieme al mare, ad ammirare quel miracolo di felicità che si anima di fronte ai miei occhi e con la mente imprimo senza sforzo splendidi fotogrammi di te. Il suono della tua voce cessa e il tuo viso si volta verso di me, impassibile ma sgargiante nella sua estrema pienezza di vita. Percepisco tutto il mondo nello stesso istante, ogni frammento di realtà si impone veemente nel mio pensiero. Mi si affacciano paesi mai visti, popoli mai conosciuti; immagini di montagne altissime e innevate che si inseguono in catene imperiose fino a gettarsi sul mare, immagini di uomini impolverati, intenti a contendersi questa o quella merce in un mercato orientale, immagini di una città sconfinata, illuminata ovunque da centinaia di cartelli luminosi, piena di macchine, rumori ed energia.
Il contatto fra le nostre iridi si interrompe quando torni, silenziosa, ad osservare la volta celeste. Mi giro anche io, fissando attento quell’immenso blu. Il mare continua a ribollire allo stesso ritmo del sangue nelle mie vene, estasiato pur'esso da quell’inondazione di vita.

Non so cosa ci sarà tra noi due, non so nemmeno cosa accadrà fra un’ora: la vita è imperscrutabile e non ha rispetto di nessuno; ma so che nei tuoi occhi è riposta una promessa di bellezza e felicità, una certa speranza di una letizia senza confine, che di sicuro non potrà tornare ad essere inghiottita dalla risacca del mare.

7 marzo 2011

A che serve un contatto quando non c’è nulla per cui vale la pena rischiare?

Persa. Sei uscita dalla mia vita con la stessa rapidità con cui sei entrata. Andata. Fuggita. Sparita. Il tuo sorriso ha cessato di rischiarare l’inizio di un giorno nuovo. Le tue parole hanno smesso di accompagnarmi in una triste sera. Eri l’ultimo appiglio che mi era rimasto, l’ultima speranza di un lieto domani, l’ultimo briciolo di voglia di restare aggrappato a questa vita, pur soffrendo. Tutto il resto scivolava via senza colpirmi finché tu eri con me a lenire il dolore, accarezzando ogni graffio col calore della tua pelle. Ora sento le ferite di mesi piombare sul mio corpo esanime e scavare a fondo in un terreno sterile e decadente.

Maschero il mio corpo, ma i miei occhi non possono tradire il vuoto in cui la tua assenza mi ha spinto all’improvviso. Sto precipitando di minuto in minuto in un nero senza forma e senza sapore dove la luce, scomparsa, vive in null’altro che l’immagine di un ricordo. Una flebile fantasia rimane assopita nel mio cuore, dilaniata allo stremo, sempre più disarmata e fragile. Presto non rimarrà niente.

Con te ho perduto la capacità di amare qualcuno. L’odio, freddo e potente, rimane il mio solo compagno e cresce nell’ombra corrodendo ogni rapporto che potrebbe rimanere. So che presto anche quest’ultimo sentimento cadrà, quando niente potrà più interessarmi tanto da essere odiato, quando il nuovo mattino non sarà altro che uno spento riflesso del passato. L’assenza di amore non è l’odio: è solo il termine di ogni contatto con la realtà. Ma a che serve un contatto quando non c’è nulla per cui vale la pena rischiare? E quando tu, vessillo sottratto di una salvezza irraggiungibile, non ci sei più?

27 febbraio 2011

Elisabetta

Scritto per il compleanno di Elisabetta C.


C’era una volta una ragazza di nome Elisabetta. Non era una principessa, non aveva la bacchetta da fata, e non era nemmeno dotata dei i poteri magici di una maga, ma era dolce, intelligente, simpatica e rifulgente di tante buone qualità. Quando era piccola, il buon padre le aveva dato in dono un magnifico flauto di argento, strumento di un’eleganza e una leggiadria straordinarie, dal suono eccelso e incantato. Esso era assai complicato da suonare e nelle mani di un inesperto non era più che un tubo di metallo (tra l’altro il padre stesso di Elisabetta produceva tubi nella sua modesta bottega, ma questa è un’altra storia). La giovane quindi, si era esercitata con costanza e dedizione per imparare a suonare il prezioso strumento e a quindici anni era ormai diventata un’abilissima suonatrice, la migliore in tutto il reame di Pesaro. Così la ragazza trascorreva serenamente le sue giornate tra la scuola, gli amici e le lezioni di flauto.

Un cattivo giorno però, dopo che Elisabetta compì il suo sedicesimo compleanno, accadde che una strega malvagia si trasformò in una giovane mendicante per ingannare l’innocente ragazza. I capelli dell’oscura signora erano chiari, costellati dai riflessi di una luce fredda e sinistra, mentre gli occhi celesti erano vitrei e agghiaccianti, segno di una crudeltà profonda e inesauribile che mai poteva trovare soddisfazione. La perfida strega era invidiosa della semplicità con cui Elisabetta riusciva a conquistare il cuore di tutta la città, così, attirandola in una trappola attraverso il proprio travestimento, riuscì a catturare la giovane, che mossa a compassione si era avvicinata alla mendicante che invocava flebilmente aiuto.

La ragazza dunque venne rinchiusa nell’inespugnabile dimora della strega, un luogo infido nella sua maestosità, costantemente sorvegliato da creature invincibili e mostruose. Elisabetta fu rinchiusa in una piccola stanza, in cui l’unico e debole punto di illuminazione era una finestrella piccola e troppo alta per la giovane, che spaventata si stringeva in un angolo della cella piangendo tristemente della dura sorte toccatale.

La strega, impietosita dalle lacrime della ragazza, le concesse di tenere con sé il flauto d’argento cosicché le giornate nella segreta trascorressero un po’ più liete. Elisabetta quindi ogni giorno si dedicò al suono del suo amato strumento e quando terminarono le canzoni da eseguire, né compose di nuove, bellissime, e tutti i passanti si commuovevano al sentire queste armonie che infondevano in ciascuno l’amarissima nostalgia della povera giovane.

La storia della triste fanciulla imprigionata in un palazzo ostile riecheggiava di valle in valle, di città in città e giunse fino alle orecchie di un giovane principe, che spinto da questi racconti, decise di mettersi in viaggio per udire lui stesso il suono della dolce flautista. Quando arrivò al palazzo, capì immediatamente che nessuna descrizione tra quelle che aveva udito poteva esprimere cosa in realtà fosse quell’armonia. Dall’alta finestrella proveniva una melodia semplice e nostalgica, indifferente a qualsiasi regola stilistica o formale, animata di una propria vita che rifluiva negli uditori direttamente dal cuore di Elisabetta. Le note, precise nella loro fuggevole rapidità, narravano di terre sconosciute, di profumi mai sentiti e di  fuochi d’amore grandiosi seppur romantici e gentili. Il principe provò nel più profondo dell’animo un’immensa tenerezza che non avrebbe potuto soffocare neppur fuggendo in capo al mondo.

Ostinato a salvare la fanciulla, il giovane cercò un qualsiasi modo per entrare all’interno del fosco edificio, ma ben presto si rese conto che nulla poteva fare contro i mostruosi servitori della strega: comprese perciò di dover entrare con l’inganno. Favorito dalla propria posizione nobiliare, si presentò alla porta della strega, e con tutta la sua arte di corteggiatore, chiese in mano la perfida signora. Questa, lusingata dalla richiesta del futuro re, non esitò ad accettare e fu stabilita in fretta la data delle nozze.
Il principe però fu velocemente catturato dalla travolgente bellezza della strega dai capelli chiari, e in quello stato assai simile all’ipnosi, si dimenticò ben presto della fanciulla imprigionata nelle segrete e si concentrò sull’imminente matrimonio.

Presto arrivò la data delle sontuose nozze, una cerimonia ricchissima e sfarzosa in cui però non c’erano invitati in quando la malvagia donna non voleva condividere con nessuno ciò che era suo. Proprio nel mezzo del matrimonio, si percepì un debole suono  di flauto, che giunse lesto alle orecchie del principe, infrangendo con veemenza l’oscuro incanto nel quale egli era caduto. Con estrema velocità il giovane estrasse la spada e la conficcò nel cuore della strega, che naturalmente non si aspettava un tale attacco; assieme ad ella scomparvero in un solo istante tutti i temibili mostri e il principe si diresse con prontezza alla cella da cui proveniva la triste melodia.

Una volta entrato, scorse seduta sul pavimento la fanciulla più splendida che avesse mai visto; era di una bellezza diversa da quella della strega, infatti Elisabetta non lo estraniava affatto dal proprio pensiero, ma bensì colorava attraverso il suo magnifico aspetto, tutte le particelle della realtà del principe, rendendole più vere ed interessanti. La pelle della giovane flautista era candida come la neve, risaltante in maniera perfetta e ordinata sui capelli folti e neri che le ricadevano nobilmente sulle esili spalle. Gli occhi si schiusero un istante dopo che la porta della cella venne aperta, e il principe non poté fare a meno di cadere in ginocchio, trafitto da tanta meraviglia. Essi erano scurissimi, grandi e profondi; erano lucidi e armoniosi, splendenti nella luce che proveniva dallo spiraglio della porta. Le pupille parevano così profonde che vi era il rischio di perdersi in una tanto nera vertigine; ma lo stesso smarrirsi in quegli occhi era la cosa più bella che al principe fosse mai accaduta, come se precipitando in quei due pozzi d’oscurità, egli fosse riuscito a salire fino alla più alta delle sue gioie.

Fu sufficiente uno sguardo fra i due per farli innamorare. Elisabetta si alzò con calma e senza che una parola fosse detta, appoggiò le sue labbra chiare su quelle del giovane che aveva dinnanzi. Il bacio fu lento e innamorato, privo di qualsiasi voracità e fretta. Poi, si presero per mano e partirono sul cavallo del principe alla volta di una nuova vita in cui non vissero sempre felici e contenti, nella quale però mai e  poi mai smisero di essere certi del loro nobile amore.